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Questo articolo fa parte del Corso di Fotografia Digitale Online.
Mi ha molto colpito, leggendo l’editoriale di Emanuele Costanzo sul numero di giugno 2009 di Foto Cult, la descrizione esatta della situazione attuale di tutti i circoli fotografici virtuali e non, dove afferma che:
…non tutti i generi godono delle stesse preferenze da parte dei fotografi. Quelli più gettonati sono la fotografia di viaggio, il paesaggio, la macro e la fotografia naturalistica. Solo una piccola percentuale si dedica con costanza e profitto ai generi di fotografia sociali, ovvero il reportage e la Street Photography.
Per questo motivo vorrei fare una dissertazione sulla fotografia di reportage sociale, alla quale mi sento particolarmente vicino.
Parlare di reportage sociale o, se vogliamo, di fotogiornalismo, vuol dire trattare di quella fotografia che, attraverso l’immagine, vuole raccontare particolari aspetti della società in cui viviamo; oppure portare a conoscenza di altri situazioni altrimenti sconosciute o lontane. Non necessariamente il fotografo deve rappresentare situazioni di degrado, violenza o sofferenza: la scelta dipende dalla sua sensibilità o “vocazione sociale”.
Comunque sia il reportage non si improvvisa. Occorre seguire delle fasi ben precise, una volta scelto l’obbiettivo da raggiungere e nello specifico, tratterò del reportage sociale filtrandolo attraverso le mie esperienze sul campo.
LA FASE PREPARATORIA
Come ho accennato sopra occorre predisporre di una adeguata preparazione culturale prima di affrontare il viaggio vero e proprio. A tale scopo, diversi mesi prima, incomincio a documentarmi sulla cultura, la religione, gli usi i costumi delle popolazioni e, anche se non antropologicamente fondamentale, ma utilissimo per me come medico, anche in ordine alle patologie mediche che potrò trovarmi ad affrontare.
Questo lavoro è di rilevante importanza per cominciare a previsualizzare nella mia mente quelle situazioni che diventeranno il filo conduttore del reportage. In mancanza di una valutazione seria, si rischia di arrivare sul luogo e di cominciare a fotografare “random”, senza una meta precisa, sperando di ottenere, alla fine, solo delle buone fotografie di soggetti casuali, che magari posso far colpo su coloro che osserveranno le mie fotografie, ma che non esprimono certamente il significato vero e profondo del reportage.
È quindi sulla base di una attenta valutazione antropologica, che si può estrapolare il cuore del reportage, il filo conduttore che deve collegare le immagini trasformandole in un vero e proprio racconto.
Il racconto, illuminato da un background culturale, non può comunque prescindere dalla propria soggettività. Come diceva W. Eugene Smith:
Quelli che credono che il reportage fotografico sia selettivo ed oggettivo, ma non possa decifrare la sostanza del soggetto fotografato dimostrano una completa mancanza di comprensione dei problemi e dei meccanismi propri di questa professione. Il foto-giornalista non può avere che un approccio personale ed è impossibile per lui essere completamente obiettivo. Onesto sì, obiettivo no.
Così, dentro di me, cominciano anche a nascere sensazioni, convinzioni e aspettative situazionali, che mi forzeranno la mano durante il viaggio vero e proprio.
SUL CAMPO
“Vale più la pratica della grammatica” racconta un vecchio adagio pregno di saggezza. Ciò lo si sperimenta quotidianamente sul campo.
Arrivato con un pieno di nozioni e di aspettative, devo confessarvi che, viverle giorno per giorno, comporta passare, in un attimo, dalla gioia di incontrare quello che ti aspettavi e fotografare con grande forza, alla delusione di non poter esprimere fotograficamente un concetto che avevi in mente per motivi tra i più disparati.
L’aspetto che, in ogni caso, ti arricchisce moltissimo è la possibilità di entrare in intimo contatto con la gente.
Entri nella loro intima quotidianità, vieni accolto come uno di loro. Mangi allo stesso desco, condividi le loro emozioni e le fai tue: in una parola ti arricchisci dentro. Ecco che allora le immagini che riprendi non sono più una fredda documentazione situazionale, documentale o ambientale, ma divengono parte intima anche del tuo vissuto emozionale più profondo. L’immagine prende vita dentro di te e diventa parte di te, chiudendo in un abbraccio ideale anche chi ti sta vicino.
Grazie alla collaborazione dei missionari che ti accompagnano puoi anche dialogare, farti raccontare e capire. Comprendere quanto grande sia l’onore che ti fanno accompagnandoti all’albero sacro e nel luogo dove esercitano la liturgia dei loro riti più segreti; quando ti spiegano come fanno a placare l’ira dello spirito dell’antenato o come nel caso in cui ti consentono di entrare nella loro riserva, dove nemmeno le autorità sono ammesse.
In queste situazioni scattare una fotografia diventa quindi quasi un rito che ti incide dentro, come uno scalpello nella pietra. Ecco quindi che nella mente mi appare la fotografia finita, in BN, con i suoi chiaro/scuri, i tagli di luce, l’inquadratura adatta a sottolineare le parole del racconto.
Il BN è pertanto il mio linguaggio, ben strutturato. Vedo il mondo in BN. Che tristezza, molti penseranno; in realtà la gamma tonale è così ampia da trascendere il colore, da poter creare continui e variati accostamenti tali da dare vita ogni volta a parole nuove o, come nella musica, ad armonie nuove. Pensare che nella musica vi sono solo sette note, la gamma tonale del BN gioca su 12 note (al minimo): quanta possibile creatività abbiamo nelle mani, anzi negli occhi!
Un altro discorso riguarda anche la scelta dell’inquadratura. A tutti sono note le regole auree della fotografia, chiamiamola così, canonica: la sintassi dei 2/3, dei pesi delle masse, del campo Gestaltico ed altre amenità del genere. Personalmente mi ritengo un anarchico: ho un’avversione profonda per le regole, anzi le studio tutte per infrangerle. Amo la rottura della simmetria, la caduta dei pesi e me ne frego della linea dell’orizzonte che dovrebbe essere sempre e tristissimamente diritta e orizzontale. Amo l’asimmetria, la ricerca dell’asimmetria che, come sottolinea Augusto Pieroni: “…consistendo nel rompere svariate regole conservando però il rigore sufficiente a creare una nuova regola fatta di infrazioni…la sua riformulazione della dinamica e della geometria classica in una ritmica dispara e serpentina…“. I cui antesignani furono Paul Strand, Rodchenko, Moholoy-Nagy e Umbo.
Ecco quindi che molte mie inquadrature escono dai canoni, talvolta creando nell’osservatore disorientamento, irritazione e sconcerto. Tuttavia ad un’attenta lettura della fotografia, appare chiaro che lo stravolgimento dell’inquadratura è funzionale a sottolineare la drammatica sofferenza e lo stato di profonda oppressione in cui si trovano le donne ritratte nella foto: dall’alto verso il basso in obliquo, come una sciabola che sta per abbattersi su di loro.
A tale proposito mi intrigano molto le parole di Maria Giulia Dondero:
Il fotografo è essenzialmente testimone della propria soggettività, cioè del modo in cui si pone come soggetto davanti a un oggetto. Quello che dico è banale e ben noto. Ma insisterei molto su questa condizione (Barthes). La fotografia è enunciata da un corpo che ha preso posizione nel mondo, un soggetto polisensoriale. Per questo è necessario interrogarsi sull’insieme formato dalla macchina fotografica e dal fotografo, legati l’uno all’altra durante tutte le operazioni che portano alla realizzazione di una fotografia.
Non ci interessa prendere in considerazione la macchina fotografica in quanto mero strumento, o la psicologia del fotografo, quanto piuttosto il modo in cui le diverse testualità mettono in scena la sensomotricità del fotografo nell’atto macchinino della presa fotografica.
Scattare un’immagine è descrivibile come un’esperienza di corpo a corpo:
Il fotografo non è mai un soggetto disincarnato di fronte a un oggetto mantenuto a distanza, ma un soggetto-corpo preso in una situazione intra-mondana della quale lui è uno degli elementi. – Schaeffer 1997
Ogni testo fotografico è il risultato di una presa di posizione del corpo nel mondo – e non del mero atto disincarnato dello scatto. Esiste sempre un adattamento ipoiconico del corpo del fotografo con l’apparecchio fotografico e con il mondo guardato attraverso il visore: “L’operazione di inquadratura mima in qualche modo quella dell’accomodamento visivo di un oggetto. Ma l’inquadrare non impegna solo lo sguardo. Per inquadrare un frammento di mondo è necessario innanzitutto sentirsi persi nel mondo. Sono delle componenti sensoriali non visive che mobilizzano il desiderio di fotografare un avvenimento.” (Tisseron 1996).
Con queste parole, apparentemente astruse, si vuole sottintendere che a farla da padrona, nello scattare un’immagine è un “unicum” di identificazione del mezzo meccanico, della presenza soggettiva, dell’atteggiamento psicologico, della visione ontologica del momento ed dell’analisi euristica del vissuto in quell’attimo, in definitiva, emozionalità pura.
Nello specifico della scelta delle mie inquadrature, entrano quindi in gioco dinamiche molto complesse ed interagenti, che nel caso specifico, mi portano con relativa frequenza a percepire il mio profondo emozionale come fuori dagli schemi ed a proporlo all’osservatore come affabulazioni di un linguaggio non convenzionale.
PROBLEMATICHE NELLA LETTURA E DIFFICOLTÀ SEMANTICHE
Il più significativo problema che affligge la lettura di una immagine di reportage è la decontestualizzazione, ovvero quando l’immagine viene visionata singolarmente, al di fuori del contesto del reportage. Questa eventualità la incontro quotidianamente quando carico una fotografia sul sito.
La singola immagine viene vista da molte persone che non conoscono il percorso logico del reportage e leggono la foto sulla base della loro esperienza personale. Questa esperienza può poggiare su solide basi di preparazione culturale, oppure no. Ma quello che più traspare evidente è che ognuno di noi legge l’immagine filtrandola attraverso il suo vissuto, la sua emotività, le sue convinzioni culturali ed il suo gusto estetico: è sufficiente? Purtroppo no, non basta per leggere in modo corretto una fotografia di reportage, così, isolatamente. Deve essere contestualizzata. Da qui la raccomandazione di passare all’osservazione anche delle altre fotografie dell’album proposto.
In ogni modo, a mio parere, è bene sempre porsi la fatidica domanda: “Cosa vuole trasmettermi l’autore?” In apparenza appare di una banale ovvietà, ma se ci pensiamo a fondo sottintende che ci dobbiamo spogliare di tutte le nostre convinzioni, dobbiamo andare oltre una lettura euristica e liberarci dalle profonde radici ontologiche delle nostre categorie, ma, al contrario, siamo invitati ad aprirci a un’analisi semiologica asettica, disinibita, che sappia fruire della testualità dell’immagine in modo da decriptarne il senso più intimo.
Se alla fine di questa “seduta psicanalitica” non riusciamo a trovare un senso compiuto e l’immagine rimane muta ai nostri sensi, allora questo “vuoto” è evidente significazione che la fotografia in esame è priva di contenuti e quindi futile (“brutta” nell’accezione più letterale del termine).
BIBLIOGRAFIA UTILE
1. Arturo Carlo Quintavalle “Messa a fuoco” Feltrinelli Editore 1994
2. Nathan Lyons “Fotografi sulla fotografia” Agorà Editrice 1990
3. Augusto Pieroni “Leggere la fotografia” Editrice EDUP 2008
4. Pier Francesco Frillici “Sulle strade del reportage” Editrice Quinlan 2007
5. Pierluigi Basso Fossali & Maria Giulia Pondero “Semiotica della fotografia” Guaraldi Editore 2006
6. Michael Freeman “L’occhio del fotografo” Logos Editore 2008
7. Emanuele Costanzo “Ritratto di una società” Foto Cult N° 55 giugno 2009
Articolo di Pietro Collini
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